Qui sotto c’è un brano di Marie Cardinal, la scrittrice francese nata e vissuta in Algeria fino ai 25 anni e famosa in tutto il mondo per il suo libro: “Le parole per dirlo”. In questo brano Marie Cardinal parla del suo bisogno di tornare in Algeria dopo anni di assenza.
Buona lettura.
Necessità di andarci. Di ritornarci. Di tornare laggiù: in Algeria, ad Algeri. Ma perché? Ho l’impressione che tutte le risposte che adesso darò a questo perché saranno insufficienti. Le radici, il ricordo, la memoria, l’infanzia, la giovinezza; certo, certo. Ma cos’altro, ancora? Non so, e credo che non saprò mai dare una qualsiasi spiegazione al mio ritorno. Penso che quello che vado a cercare non appartenga alla sfera della ragione Non sono le case nelle quali ho abitato ad attirarmi, e nemmeno i luoghi dove verranno a ricomporsi i fantasmi che vagano nel mio oblio traforato. No, voglio raggiungere qualcosa di diverso, qualcosa che viene dalla terra, dal cielo e dal mare, qualcosa che per me esiste solamente in quel preciso luogo del globo terrestre. Ma in questo momento non mi riesce di immaginare di che cosa realmente si tratti. Forse dei vuoti, delle cavità, dei liquidi vortici dai quali, durante l’infanzia, durante l’adolescenza, io mi lasciavo inghiottire. Secco fruscio delle foglie di eucalipto agitate dal vento del deserto. Frinire pazzo delle cicale. La siesta. Il caldo fa ondeggiare il paesaggio. Niente è stabile, tutto è eterno. Il cielo è bianco. Ma perché vivo? Ma cos’è la vita?
Per me vivere altrove, lontano da quei luoghi, ha cambiato il senso della parola vivere. Vivere altrove è diventato sinonimo di arrancare per guadagnarsi la vita, di organizzare la vita, di strutturare la vita, di programmare la vita. Là, vivere era vivere; significava abbandonarsi ai ritmi consueti dell’uomo senza soffrirne; dolersene o gioirne, ma accettandoli per quel che sono. Da quando non vivo più in Algeria, per me non esistono che lavoro, vacanze e lotte. I momenti in cui mi sento in perfetta armonia col mondo, senza restrizioni, non esistono più.
Viene la sera, fa meno caldo, abbiamo annaffiato, che liberazione. Una sedia davanti alla porta, sulla terra battuta dove le formiche corrono a casaccio. Il cielo è rosa. Io sono la sedia, la soglia, la formica. Non un granello di quel terreno ch’io non conosca, il cui aspetto da tempo immemorabile non sia scontato a forza d’essere intimo e familiare, e designi qualcosa che non siano l’ora, il tempo che fa, la stagione… Non un’ombra, non un rumore, non un palpito che per me non significhino il durare infinito, la perpetuità del mio essere laggiù, in quel posto dove ogni elemento è indispensabile in ogni momento, e a ogni elemento io sono indispensabile. Mai più quel riposo svagato. D’ora in avanti, una vita conforme ai manuali di psicologia, di fisiologia,di sociologia. Felice-infelice. Gradevole-sgradevole. Fervida-noiosa. Dolce-violenta. Specie di vita umana omologata. Ma in una cornice che non è più mia complice, mio complemento, mia ispiratrice, mia fonte e mia fontana, anche quando somiglia molto a quella via vita in Algeria…
Marie Cardinal: “Nel paese delle mie radici”
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