Asilo politico e ambasciate
A proposito di asilo politico e ambasciate.
Consiglierei di di leggere con estrema attenzione il post più sotto che appartiene a Nazione Indiana. L’articolo, in risposta a un precedente post, è stato scritto da Domenico Fornara. Il diplomatico italiano chiarisce in modo semplice, ma esauriente quali siano i problemi legati alla richiesta d’asilo nel proprio Paese e perché questo sia impossibile.
Rifugiati e diritto d’asilo: cosa (non) possono fare le ambasciate italiane
di Domenico Fornara (diplomatico)
(pubblichiamo una risposta al nostro “Diritto d’asilo: una proposta politica“).
Idee condivisibili (sostengo da sempre che occorra uscire da una mentalità di emergenza e lavorare su programmi di migrazione/asilo di medio lungo termine, armonizzati in ambito UE, non dettati unicamente da esigenze di sicurezza) ma irrealizzabili per motivi di ordine giuridico ed organizzativo. Innanzitutto lo status di rifugiato è giuridicamente incompatibile con la presenza dell’interessato nel proprio paese; lo stesso vale per il richiedente asilo: ne ha titolo chi fugge dal proprio paese, ritenendosi perseguitato, e chiede protezione ad un altro stato.
Ai sensi della Convenzione di Ginevra sul diritto dei rifugiati del ’51 e di tutti gli altri strumenti giuridici in materia il passaggio della frontiera è condizione necessaria. Finché il richiedente si trova “a casa” non può giuridicamente essere considerato un rifugiato e se palesa le sue intenzioni rischia di peggiorare la propria condizione di perseguitato inimicandosi ulteriormente le sue autorità (per carità, non voglio minare il principio di libertà di parola, descrivo solo una condizione di fatto in molti regimi autoritari).
In paesi di grandi dimensioni l’aspirante richiedente asilo potrebbe inoltre non trovarsi nella capitale, ma a migliaia di chilometri di distanza, e non è affatto detto (anzi) che le autorità locali lo lascino liberamente scorrazzare per andare a chiedere asilo presso le ambasciate occidentali. Ed ove riuscisse ad ottenerlo grazie ad una interpretazione estensiva del principio di territorialità (considerando l’ambasciata extraterritoriale e l’ingresso in essa alla stregua del “passaggio di frontiera” di cui sopra: esistono dei casi, vedasi Assange), si porrebbe poi il problema di dover nuovamente transitare sul territorio del proprio paese per raggiungere porti o aeroporti. Anche in questo caso non è affatto detto (a-ri-anzi) che le locali autorità lo lascino passare e partire. Finirebbe per blindarsi nell’ambasciata e rimanerci sine die (ricordo il caso di persone che sono rimaste per oltre vent’anni nel compound di una nostra ambasciata), contribuendo peraltro a peggiorare le relazioni tra lo stato di bandiera dell’ambasciata e lo stato ospite.
Da un punto di vista pratico, inoltre, il riconoscimento dello status di rifugiato implica approfonditi studi sulla situazione del suo paese di provenienza e – soprattutto – su quella specifica del richiedente asilo che richiedono ripetute interviste alla persona, raccolta di elementi e testimonianze ed una expertise complessa e composita (in Italia il lavoro viene svolto da diverse Commissioni territoriali, coordinate da una Commissione nazionale: di esse fanno parte molti funzionari ed esperti provenienti da diversi ministeri, associazioni ed organizzazioni internazionali). Queste expertise non esistono nelle Ambasciate.
Le nostre rappresentanze diplomatiche inoltre, già piccole per definizione, sono letteralmente “alla canna del gas” a seguito di continui tagli al bilancio del Ministero degli Esteri (altri sono in arrivo…) e non potrebbero mai raccogliere tale sfida. Faccio un esempio concreto: la nostra ambasciata a Khartoum (Sudan) conta due funzionari (incluso l’ambasciatore) e cinque impiegati inviati dall’Italia: totale sette persone che devono gestire tutto lo spettro di rapporti politici, di sicurezza, commerciali, consolari, sociali, culturali (continuo?…) con il paese africano e la comunità italiana residente. Ad essi si aggiungono una manciata di contrattisti locali (che, in quanto tali, non hanno potere decisionale, ma sono solo esecutivi: segreteria, autisti, ecc). Attualmente in Sudan ci sono circa 1.880.000 sfollati interni (molti dei quali potrebbero avere titolo a chiedere asilo altrove). Se decidessimo di aprire uno sportello “richiedenti asilo” presso la nostra Ambasciata, cio’ avrebbe un enorme “pull factor” e, con ogni probabilità, molti di questi sfollati potrebbero volersi presentare presso la nostra ambasciata. Lascio immaginare le conseguenze.
Ciò senza contare che in alcuni paesi le condizioni politiche e di sicurezza sono tali per cui la maggior parte degli stati occidentali ha interrotto le proprie relazioni diplomatiche chiudendo di fatto l’ambasciata (es. Siria) o gestisce i propri rapporti bilaterali da un’altra sede vicina (Somalia, per cui abbiamo un ambasciatore dedicato ma di fatto residente a Nairobi). Ed i poveri siriani e somali (che peraltro costituiscono buona parte dei nostri richiedenti asilo) come li gestiamo? Ps. Se qualcuno vuole suggerire di potenziare la nostra rete estera per affrontare meglio le nuove sfide (come anche questa) sappia che mi troverebbe d’accordo.
Faccio tuttavia presente che la tendenza è ahimè inversa. Il nostro Ministero degli Esteri, che già era meno staffato e finanziato rispetto a quelli dei nostri partner occidentali di riferimento, ha visto ridotto il suo budget del 40% negli ultimi 5 anni. Nei prossimi giorni ci accingiamo a chiudere una trentina di uffici all’estero e, stando alla manovra attualmente in discussione in parlamento, nei prossimi due anni le risorse per le indennità del personale all’estero (già drasticamente ridotte negli ultimi anni) verranno tagliate di ulteriori 20 milioni di euro. Non si fanno i conti senza l’oste…
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