Carlo, l’impiegato che si trasforma in Dottor Pluto

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Carlo Guerra, dottor Pluto

Di recente rientrato dalla Palestina, racconta la sua esperienza come medico del sorriso in aiuto dei bambini malati Carlo, l’impiegato che si trasforma in Dottor Pluto

Carlo è un impiegato di recente rientrato da un viaggio in Palestina. Ma non è la sua sola occupazione. Dietro Carlo c’è infatti Dottor Pluto: naso rosso, lunghe orecchie, leggerezza, bolle di sapone, abbracci e sorrisi nascosti nella borsa che dispensa a piene mani ai bambini in ospedale.

«Dal 2004 faccio parte dell’associazione Dottor Clown Italia, che opera da circa vent’anni. Lavoriamo negli ospedali vicentini rivolgendoci soprattutto ai bambini. Giriamo anche in reparti di adulti, come oncologia. Siamo una banda di giovani, meno giovani: chiunque abbia voglia di spendere un po’ del suo tempo può essere Dottor Clown. Si fa il primo corso starting che prosegue per un anno e alla fine c’è una sorta di clown-test con festa per gli aspiranti clown che ricevono diploma, camice, naso rosso, borsa delle magie e sono nominati Dottor Clown.

Una volta la settimana vado al S. Bortolo di Vicenza per due ore. È il mio ospedale c’è un bel rapporto con il personale, ormai sappiamo come muoverci perché comunque non è un circo, ma un ospedale. Sembra banale, ma entrare in una camera è ogni volta un’esperienza diversa. Puoi trovare un bambino, o due, o tre; magari è appena stato operato, l’altro lo sarà domani, oppure è triste… non è facile fotografare la stanza e capire se partire subito o andare al rallentatore, con un po’ di bolle. Dobbiamo affrontare anche situazioni emotivamente forti e, se uno non regge, esce dalla camera e si leva il naso finché riesce a scaricare la tensione. Facciamo sempre un cerchio finale prima di andare via, perché il nostro motto è

Non portarsi a casa il dolore che abbiamo incontrato nel giro che abbiamo fatto.

Ed è il momento in cui condividere con gli altri le cose belle e quelle meno belle che hai vissuto».

Carlo Guerra, Gruppo ClownTutto è partito dal film Patch Adams, si è voluto provare anche qui ad adottare la terapia del sorriso in corsia. Dottor Pluto racconta delle missioni all’estero, che sono decine ormai. Hanno iniziato con un progetto in Libia e poi India, Sudamerica, Kenya e Tanzania, Romania, in Italia nei luoghi del terremoto perché

«Non ci bastava essere solidali. La nostra presenza è apprezzata, può sembrare strano vedere i clown in un luogo disastrato, dove ci sono stati dei morti, ma un po’ di sorrisi e leggerezza aiutano a non pensare alla tragedia».

E poi campi rom e case di riposo.  Adesso sono rientrati da Palestina e Israele.

«È una missione di amore e sorrisi: ne puoi portare quanti vuoi, non pesano e non li devi dichiarare alla dogana. Non abbiamo la pretesa di cambiare il mondo, ma di dare un po’ di leggerezza: come un arcobaleno che arriva, se ne va e lascia il suo ricordo. Il clown non è mai di parte, va oltre qualsiasi barriera: politica, religiosa, ideologica, di razza, e noi andiamo da tutti con il nostro naso rosso che è una maschera piccola piccola, ma potente che apre un sacco di porte e quella è la cosa più straordinaria. Portiamo quello che possiamo, i nostri obiettivi sono i bambini di strada, case di accoglienza, bambini con disabilità, malati di Hiv, Aids. Facciamo uno spettacolino di tipo circense, o attività di contatto, cioé una carezza, le bolle, tenersi per mano, anche solo uno sguardo a volte. In Palestina in questi 10 anni è cambiato ben poco, abbiamo trovato un popolo in sofferenza. Non siamo potuti andare a Gaza perché c’erano dei disordini. Abbiamo vissuto un po’ anche la parte israeliana, in un centro per disabilità molto gravi, per cui non abbiamo parlato con le persone. Si percepisce comunque il disagio. Anche se loro sono “quelli forti”, la tensione c’è e sicuramente una parte della popolazione soffre per questa divisione. Noi comunque non entriamo in queste questioni, perché siamo di passaggio, una goccia nell’oceano».

Il rientro non è facile

«È sempre il momento più difficile da gestire: tornare nella propria realtà, dopo che si è stati in posti ai limiti della decenza umana, richiede un lavoro su te stesso per riportarti qui, perché è qui che vivi. E qui insegno da 3 anni italiano agli stranieri, anche per dare un valore aggiunto alla comunità. Se poi altri non capiscono perché lo facciamo, a noi non importa, son problemi loro».

 

Articolo pubblicato nel settimanale Schio & Thiene Week del 26.05.2018

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