Malgrado una rigida censura, sono sempre più frequenti le notizie di abusi che si consumano all’interno dei centri di identificazione ed espulsione (CIE). Il prolungamento dei tempi di detenzione amministrativa, fino a sei mesi, e le condizioni indegne nelle quali sono trattenuti gli immigrati rinchiusi nei CIE, nei quali si fa ampio uso di psicofarmaci, non meno che l’assenza di qualsiasi prospettiva di regolarizzazione, producono con cadenza quotidiana gesti di autolesionismo, rivolte, tentativi di fuga seguiti da pestaggi ed altre misure punitive. Si moltiplicano così le violazioni dei diritti fondamentali di persone comunque sottoposte a limitazioni della libertà personale, trattamenti vietati dall’art. 13 della Costituzione, oltre che dalla legge penale e dalle Convenzioni internazionali. La prospettiva dell’espulsione, le continue visite degli agenti diplomatici, e gli interrogatori ai quali vengono sottoposti i migranti dopo il loro rimpatrio forzato nei paesi di origine, in particolare nel caso dell’Egitto e della Tunisia, spingono alla disperazione quanti rischiano di essere consegnati dalla polizia italiana alle forze di polizia di paesi che non garantiscono alcun rispetto della dignità umana.
La repressione quotidiana all’interno dei CIE, controllati dai reparti antisommossa delle forze di sicurezza, si rivolge verso una miriade di gesti di disobbedienza, spesso indotti dalla disperazione di immigrati che si vedono negati qualsiasi prospettiva di futuro, e di rientro in una condizione di legalità. Mentre si impedisce in tutti i modi la circolazione delle informazioni su quanto avviene all’interno dei centri e vengono criminalizzati coloro che continuano a manifestare solidarietà nei confronti di quanti vi sono rinchiusi. La richiesta di incriminazione di medici che a Milano avrebbero curato il migrante egiziano disceso dalla torre sulla quale rivendicava i propri diritti costituiscono un allarmante campanello d’allarme per tutto l’associazionismo che non si fa complice delle politiche del governo.
Continua intanto la protesta dei migranti e delle associazioni antirazziste contro la “sanatoria truffa” e molti di coloro che ne sono stati vittima vengono inviati e trattenuti nei centri di detenzione, per essere quindi espulsi verso i paesi di provenienza. Molte donne rinchiuse nei CIE, vittime della tratta, non sono ammesse agli strumenti di protezione previsti in loro favore e rimangono esposte al rischio di essere riconsegnate ai loro sfruttatori, sia che vengano rimesse in libertà in Italia, sia che vengano riaccompagnate nei paesi di origine.
La crescente rigidità della legislazione in materia di immigrazione, inclusa la disciplina delle espulsioni e dei centri di detenzione amministrativa, rafforza intanto la dipendenza dei migranti irregolari dalla criminalità. Come emerge da recenti inchieste della magistratura, le organizzazioni criminali non si limitano più a favorire l’ingresso nel territorio, ma continuano a controllare nel tempo i movimenti degli immigrati e la loro attività lavorativa dopo il loro arrivo in Italia. L’aumento dei costi per entrare irregolarmente in Italia, effetto delle politiche proibizioniste adottate dagli ultimi governi, non sta aumentando soltanto il profitto di queste organizzazioni, composte da italiani e stranieri, ma sta assoggettando ai poteri criminali il destino presente e futuro dei migranti e delle loro famiglie, vincolate per anni a saldare debiti che non possono estinguere come in passato, anche per la impossibilità di una regolarizzazione.
La introduzione del reato di immigrazione clandestina, e l’inasprimento delle pene previste per chi si trattiene in Italia dopo un provvedimento di espulsione, fa crescere il numero degli immigrati rinchiusi in carcere, dove il sovraffollamento e la violenza nelle attività di controllo producono trattamenti inumani o degradanti. La maggior parte dei migranti irregolari rimessi in libertà dopo la fine della pena vengono rinchiusi nei centri di identificazione ed espulsione (CIE), prima di essere espulsi ( nel 40 per cento dei casi, circa) oppure rigettati nella clandestinità, sempre più esposti allo sfruttamento dei datori di lavoro che ne abusano e delle organizzazioni criminali che gestiscono i mercati illegali della droga e della prostituzione.
In caso di reato, anche se di lieve entità, si continua intanto ad applicare il principio della doppia pena (carcere + CIE) che in altri paesi europei come la Francia è apparsa illegittima, e che risulta pure in contrasto con i nostri principi costituzionali. Nessuno può essere punito due volte per lo stesso fatto. In realtà, la detenzione amministrativa stabilita in Italia dalla legge Turco-Napolitano, successivamente inasprita con la legge Bossi-Fini e poi con i vari pacchetti sicurezza approvati dall’ultimo governo, si configura sempre più come uno vera e propria sanzione afflittiva, strumento di esclusione e di penalizzazione di persone che sono prive di documenti di soggiorno, piuttosto che come una fase strumentale all’esecuzione effettiva dei provvedimenti di espulsione.
I centri di identificazione ed espulsione sono sempre più blindati e le nuove strutture detentive che il ministero dell’interno sta cercando di aprire in tutta Italia sono autentiche fortezze, distanti dai centri urbani, per impedire che le nefandezze che avvengono al loro interno possano essere percepite al di fuori delle mura di cinta, come è successo in diverse occasioni proprio attorno al Centro di detenzione Serraino Vulpitta di Trapani. Questa vecchia struttura, in origine un ospizio per anziani, adesso dovrebbe essere chiusa, dopo l’apertura di un nuovo centro di detenzione “polifunzionale” in contrada Milo, in una zona isolata all’estrema periferia della città. Per la cogestione del nuovo CIE di Trapani-Milo, come in altre parti d’Italia, si verificherà adesso la consueta caccia al convenzionamento da parte di associazioni ben note, di diverso colore politico, ma tutte interessate da tempo a lucrare sulle diverse forme di privazione della libertà subite dei migranti irregolari. E qualcuno la chiamerà pure “Cittadella dell’accoglienza”.
Dopo la Commissione d’indagine “De Mistura” nel 2007 e dopo il prolungamento a sei mesi della detenzione amministrativa, si è impedita qualsiasi ispezione nei centri di identificazione ed espulsione, né sono stati chiusi quei centri, come il Vulpitta come persino la Commissione ministeriale aveva richiesto. Sono anche terminate le ispezioni periodiche effettuate da parlamentari ed associazioni indipendenti, che fino al 2008 avevano permesso di denunciare gli abusi più eclatanti che si verificavano nei vecchi Centri di permanenza temporanea (CPT). Solo di recente un rapporto di una organizzazione di medici ha svelato gli abusi e le violazioni della dignità umana che si consumano all’interno di uno dei CIE più importanti d’Italia, quello di
Ponte Galeria a Roma. Il rapporto offre una serie di dati che offrono utili indicazioni sulla inutilità e sulla dannosità degli altri centri di detenzione in un momento in cui il ministro Maroni rilancia la campagna propagandistica per aprirne altri in diverse parti d’Italia.
Il 24 dicembre prossimo l’Italia dovrebbe dare attuazione alla Direttiva Comunitaria 2008/115 sui rimpatri che stabilisce “norme e procedure comuni da applicarsi negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, nel rispetto dei diritti fondamentali in quanto principi generali del diritto comunitario e del diritto internazionale, compresi gli obblighi in materia di protezione dei rifugiati e di diritti dell’uomo”.prevedendo la necessità di valutare caso per caso la situazione degli immigrati irregolari da allontanare dal territorio dello Stato e la verifica della possibilità di un rimpatrio volontario, prima di procedere all’accompagnamento forzato in frontiera.
Nell’applicazione di questa direttiva “gli Stati membri tengono nella debita considerazione:l’interesse superiore del bambino;b) la vita familiare; c)le condizioni di salute del cittadino di un paese terzo interessato;e rispettano il principio di non-refoulement ( non respingimento verso paesi nei quali si può essere esposti a trattamenti inumani o degradanti) sancito dalla Convenzione di Ginevra ( art. 33) ed integrato dall’art. 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo.
La direttiva stabilisce in particolare che gli stati dovrebbero procedere ad esperire il rimpatrio volontario prima di procedere all’allontanamento forzato ed afferma che “ove gli Stati membri ricorrano – in ultima istanza – a misure coercitive per allontanare un cittadino di un paese terzo che oppone resistenza, tali misure sono proporzionate e non eccedano un uso ragionevole della forza. Le misure coercitive sono attuate conformemente a quanto previsto dalla legislazione nazionale in osservanza dei diritti fondamentali e nel debito rispetto della dignità e dell’integrità fisica del cittadino di un paese terzo interessato”. Quanto previsto dalla direttiva comunitaria 2008/115/CE contrasta con la legislazione italiana vigente e soprattutto con le prassi amministrative stabilite dai vertici del ministero dell’interno e quindi seguite dalle forze di polizia nei casi di allontanamento forzato e di detenzione amministrativa. Tutto quanto assume un carattere ancora più disumano se si considera che la condizione di irregolarità non è mai frutto di una libera scelta dei migranti, ma deriva dalla legislazione che impone un nesso formale tra ingresso o soggiorno legale e contratto di lavoro, dietro il quale si consumano ricatti ed abusi di ogni genere.
La mancata adozione del decreto flussi, al di là di un ridotto contingente di lavoratori stagionali, e la moltiplicazione dei casi di licenziamento degli immigrati, prima in possesso di un regolare permesso di soggiorno, sta ampliando enormemente il numero degli immigrati che potrebbero essere espulsi o internati nei centri di detenzione, e si calcola che il numero degli irregolari in Italia sia oggi di oltre 700.000 persone (580.000 secondo i dati della Fondazione Ismu nel 2009). Il sistema della detenzione amministrativa si inserisce così tra gli strumenti di precarizzazione, e quindi di sfruttamento, della forza lavoro migrante, e la diffusa condizione di irregolarità garantisce profitti certi non solo alle organizzazioni criminali, ma ad un esteso sistema imprenditoriale che opera ai margini dei mercati legali, ricorrendo su vasta scala al lavoro sommerso ed all’evasione fiscale e contributiva.
Malgrado la Corte Costituzionale abbia “salvato” in passato i centri di detenzione amministrativa, a partire dalla sentenza n.105 del 2001, nella quale però si stabilivano precise garanzie in favore degli immigrati sottoposti al “trattenimento” in queste strutture, oggi, dopo l’introduzione del reato di immigrazione clandestina, ed il prolungamento a sei mesi della detenzione amministrativa, occorre verificare ancora una volta la compatibilità di questo istituto con le previsioni costituzionali, in particolare gli articoli 3 (principio di parità di trattamento), 13 (garanzie di controllo giurisdizionale effettivo sulle limitazioni della libertà personale attuate dalle forze di polizia), 24 ( diritto di difesa) e 32 (diritto alla salute). Occorrerà anche verificare l’utilizzo “disinvolto”, sempre più diffuso, della detenzione amministrativa per i cittadini comunitari, come i romeni, sollecitando una indagine in tal senso da parte della Commissione Europea e denunciando tutte le violazioni della direttiva comunitaria 2004/38 sulla libera circolazione dei cittadini comunitari davanti alla Corte di Giustizia di Lussemburgo.
Occorre saldare la protesta contro la sanatoria-truffa e la giusta rivendicazione di un provvedimento di regolarizzazione generalizzata con la richiesta, che dovrà essere altrettanto determinata, per la chiusura dei centri di identificazione ed espulsione e per impedire che altri ne vengano aperti nel territorio italiano. Come sta per accadere in Sicilia, dove sembra ormai prossima l’apertura di un nuovo CIE per 250 persone, tra le quali 50 donne, a Milo, vicino Trapani, all’interno di un centro cd. polifunzionale (anche per richiedenti asilo o per immigrati in attesa di identificazione) sul modello di quello già operante in Sicilia a Caltanissetta (Pian del lago) chiuso dallo scorso anno, a seguito di un incendio. Su questo fronte le associazioni non governative devono interrompere qualsiasi forma di cogestione di queste strutture, senza fornire più, con la loro presenza, facili alibi per gli abusi commessi con cadenza quotidiana ai danni dei migranti. La detenzione amministrative non deve diventare per nessuno occasione di profitto, né può costituire una risposta ai problemi occupazionali di coloro che vengono impiegati all’interno dei CIE, problemi sempre più gravi avvertiti in molte regioni italiane, soprattutto in quelle meridionali, ma che vanno risolti altrimenti e non a danno di persone costrette ad una detenzione spesso violenta ed arbitraria. Piuttosto che lavorare nel supporto alla detenzione amministrativa si dovrebbe aumentare la funzionalità dei servizi di prima accoglienza alle frontiere e la capacità di integrazione delle strutture di seconda accoglienza.
L’Italia ha chiuso moltissimi progetti di accoglienza per i richiedenti asilo, interrotto l’assistenza alle vittime della prostituzione e della tratta, negando qualsiasi prospettiva di regolarizzazione alle vittime dello sfruttamento lavorativo ed ha trasferito ingenti risorse verso gli strumenti di attuazione delle misure di accompagnamento forzato. La istituzione dei CIE, il loro continuo adeguamento alle esigenze di sicurezza che puntualmente restano inevase, a partire dalle prescrizioni sanitarie ed antincendio, come la loro gestione, in mano all’associazionismo vicino alle prefetture, sono costati centinaia di milioni di euro che, anche a fronte della conclamata inutilità dei CIE a garantire effettivamente le espulsioni, potrebbero invece essere destinati alla spesa sociale ed a misure di accoglienza.
Gli attuali CIE possono essere chiusi, introducendo contestualmente una disciplina più selettiva dei casi di espulsione, con il rispetto dei principi di diritto imposti dalle direttive comunitarie e, soprattutto, dei criteri di adeguatezza e proporzionalità. Le procedure di allontanamento forzato e di detenzione amministrativa vanno ricondotte al rigido rispetto del dettato costituzionale e della direttiva sui rimpatri (2008/115/CE) e sulle sanzioni ai datori di lavoro in nero (2009/52/CE). Si deve procedere al più presto ad una regolarizzazione di quanti sono costretti a lavorare in nero, senza attribuire rilievo ad espulsioni precedenti che si collegano soltanto alla condizione di irregolarità. Nessun paese civile può sopportare una situazione nella quale centinaia di migliaia di lavoratori sono costretti a lavorare sotto il ricatto di una condizione di clandestinità senza sbocco.
Infine, occorre restituire una effettiva valenza alla riserva di legge prevista dall’art. 10 della Costituzione in materia di condizione giuridica degli stranieri, ed impedire che leggi in contrasto con il dettato costituzionale continuino ad affidare alle autorità di polizia poteri discrezionali praticamente illimitati, anche per la ridotta incidenza del controllo dei giudici di pace in sede di convalida dei trattenimenti nei CIE. Vanno riconosciuti a tutti gli immigrati, anche a quelli irregolari, i diritti fondamentali della persona umana, sanciti nella Costituzione e nelle convenzioni internazionali, come è stabilito espressamente anche dall’art. 2 del T.U n. 286 del 1998 in materia di immigrazione. Un richiamo preciso, che oggi alla luce della direttiva sui rimpatri 2008/115/CE impone una modifica sostanziale delle norme in materia di espulsione e di trattenimento nei centri di detenzione amministrativa.
Oggi, alla vigilia dell’ennesima campagna elettorale, su questi temi i professionisti dell’insicurezza, gli imprenditori della paura, i ministri che vantano “successi storici” tanto miserabili quanto fondati sulla disinformazione, ma sempre sulla pelle dei migranti, faranno sentire forte le loro voci. Contro di loro occorre riannodare i legami della solidarietà. La battaglia per la chiusura dei CIE deve diventare snodo per rivendicare il riconoscimento della dignità umana dei migranti, e non solo, a partire dalla rottura del legame perverso tra carcere e detenzione amministrativa, anche per battere la crescente criminalizzazione di quanti protestano, contro una politica che subordina e mortifica tutti, migranti e cittadini. Oltre la regolarizzazione permanente per tutti e per tutte, bisogna collegare le diverse realtà di movimento che si stanno battendo in questo momento contro le politiche antisociali del governo Berlusconi. Ancora una volta, contro qualsiasi governo, l’impegno per i diritti dei migranti dovrà saldarsi con la lotta per il riconoscimento effettivo dei diritti fondamentali di tutti, cittadini e stranieri insieme.
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