Francesca, insegnante e psicologa si racconta

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Francesca Pozzato

Francesca è psicologa e psicoterapeuta, insegnante nella scuola primaria, appassionata di musica e scrittura, attiva nell’associazione «Ugualmente abili»; fa una vita normale, non permette alla disabilità di definirla e dice: «Sono una ragazza con una malattia, non una malattia con una ragazza».

Mi sento ancora molto giovane, ma in verità sono un’adulta fatta e formata, nata e cresciuta qui. Lavorando nella scuola ho riscoperto la passione per l’infanzia che dà senso alla vita, e mi tiene attaccata alla terra. Amo la musica e mi piace molto scrivere. Ho da poco finito un racconto per bambini, presentato in Colombia: avevamo attivato una borsa di studio per ricordare mio fratello Luca: lui suonava il piano e volevamo permettere a un bambino di suonare in un’orchestra. Ne è stato trovato uno a Medellin, dove vivono alcune amiche.

Volevo presentare la storia di Luca in modo originale ed è nato Lulu, racconto che segue una canzone da lui scritta. Un’amica direttrice d’orchestra in Valle d’Aosta, ha scritto lo spartito, un’altra ha illustrato la storia letta da una terza con il sottofondo della canzone suonata dall’orchestra di Medellin. C’è anche un editore interessato a pubblicare. A scuola invece abbiamo appena vinto uno dei premi Marzotto. Il mio compito lì è supportare le insegnanti nella gestione dell’aspetto relazionale del gruppo classe. Ho poi uno studio privato di psicoterapia.

La disabilità è come tutti gli imprevisti, quando ci sei dentro, vai. Prima vivevo in un mondo chiuso, adesso, con persone che non mi conoscono, mi trovo appiccicate modalità e scelte che vengono fatte su di me senza contemplarmi: a volte gli adulti non chiedono perché temono di farti star male, così resti fuori da quello che ti riguarda. I bambini, invece, le domande le fanno. Anche se ho trovato sempre persone intelligenti, credo che il “sistema lavoro” abbia bisogno di una cultura tutta da pensare sulla disabilità, che si tende a semplificare come fosse uguale per tutti.

Mi piacerebbe se ne parlasse in modo, non provocatorio, ma irriverente perché c’è bisogno di scuotere: per esempio, disabilità e sesso, inteso in senso ampio; si sente l’imbarazzo nell’aria. Un amico mi diceva: “Come faccio a conoscere una ragazza? Sono sempre con qualcuno”. Siamo come tutti, ma per noi si usano sempre le solite quattro parole buoniste: angeli intonsi, neutrosessuali e attaccati ai genitori perché, giustamente, si pensa al “dopo di noi”, però non dovresti aver bisogno dei genitori così tanto.

Il welfare dovrebbe andare oltre al pur importante aspetto economico. Invece, manca una visione delle cose perché non c’è pensiero. Ora ho bisogno di più autonomia, di persone che capiscano la mia esigenza di indipendenza mentale, oltre che fisica, ma devo sempre contrattare il mio stile di vita.

Crescere e diventare adulti porta ad entrare in una solitudine enorme: fasi in cui ci si dovrebbe costruire una vita, staccandosi dalla famiglia, invece, e per fortuna, c’è sempre la vicinanza. Ma la solitudine c’è: ritrovarsi a fare i conti da soli, che poi in realtà è la difficoltà di tutti: le cose più serie della vita, anche se accompagnati, siamo noi che le facciamo.

Sogno che si torni ad essere una comunità che condivide, come quando nella contrada si viveva un viaggio comune, mentre adesso è un viaggio solitario. Ma le persone preferiscono il bene al male. Quindi bisogna credere in loro.

Articolo pubblicato nel settimanale Schio & Thiene Week del 22.09.2018

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