Io e il campo di Renicci
Renicci, come ho scoperto l’esistenza del campo:
Nel 2005 frequentavo il secondo anno della scuola Mnemosyne della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (AR). Se alla fine del primo anno il compito era quello di presentare la mia autobiografia, alla fine del secondo dovevo intervistare qualcuno. Durante il percorso formativo ad Anghiari abbiamo intervistato alcune persone che vivevano vicine al campo di concentramento in località Renicci.
Io ho saputo solo allora che anche in quella zona d’Italia, a Renicci, esisteva un campo di concentramento; ora, in occasione del 25 aprile 2016, ho pensato di aggiornare e ripubblicare l’intervista narrativa fatta a suo tempo al signor Domenico, che nel 1943 aveva 16 anni.
Credo che, nonostante sia un po’ lunga, valga la pena leggerla tutta. Mentre scrivo sento ancora la voce del signor Domenico mentre racconta, con quel suo bell’accento toscano. Questa è stata una grande lezione di vita per me.
Buona lettura e buona riflessione a tutti noi.
Renicci: la prima volta che ho visto gli internati
A Renicci, la prima volta che li ho visti arrivare, me la ricordo come se fosse successa ieri. Stavamo andando a cogliere l’uva e abbiamo visto questa gente passare, e ci siamo detti: “Ma che, son scemi questi?”. Noi non sapevamo che si trattava dei primi internati – allora li chiamavano così i detenuti. E, dopo qualche sera, ne abbiamo visto un altro gruppo. Siamo entrati in guerra nel giugno del 1940, è passato del tempo prima che arrivassero gli internati. Dev’essere stato l’inizio di ottobre del 1942, il più freddo inverno che io mi ricordi. Non ci sono più stati inverni così freddi. Io avrò avuto 16/18 anni allora. Vedevamo passare questa gente per la strada, li portavano ad Anghiari con il trenino e poi, scortati dalle guardie, arrivavano qui a Renicci. I terreni sono stati espropriati e ci hanno fatto il campo di concentramento. Il comandante, un siciliano di nome Pistone, era un fanatico balordo.
Per noi che guardavamo, era una passione vedere questa gente: i vecchi, specialmente i vecchi! Era tutta povera gente, era brava gente che non aveva fatto nulla di male e non avrebbe dovuto essere internata. Alla stazione di Anghiari arrivavano anche di notte, a piedi. E poi, c’era qualche guardia che era più impulsiva, a chi era stanco, ai vecchi che camminavano troppo piano, arrivava qualche calcio di fucile. qualche bastonata o calci nel sedere. Non era un godere per noi, anche pensando ai parenti che si avevano sotto le armi (io avevo tre fratelli); pensavo: “Se anche i miei fratelli le prendono in quel modo tutti e tre… povera gente!”.
Il campo di Renicci
In quell’inverno così freddo e cattivo, ci sono stati molti morti: tutti i giorni venivano portati al cimitero 7 – 8 morti, c’è un cimitero lì a sinistra, vicino alla chiesa. La mattina c’era la brina fuori, e noi sapevamo che chi è più debole se ne va. A morire, erano soprattutto i vecchi, i più deboli. C’era un falegname che aiutava a fare le casse da morto. Sopra la bara si sedeva il cappellano e via con i muli al cimitero di San Sepolcro, e poi ritornavano a prenderne un altro.
Allora ero giovane eppure mi faceva impressione, ora sono anziano e mi fa ancora impressione, non posso vedere e pensare a queste cose, io penso che dobbiamo avere amore uno per l’altro. Certo lo so che c’era la guerra; lo so che la guerra è la guerra… ma io… beh, spero che non si ritorni a queste cose, perché son cose brutte, che dispiacciono. Gli internati, oltre che essere sotto le tende, mangiavano poco e male: rape e ghiande. E io pensavo: “Le rape, ma cosa mangi con le rape? E le ghiande servono per i maiali, non per gli uomini!”. E poi c’erano gli insetti, le pulci e i pidocchi. Cose che non si dovrebbero mai vedere. Gli internati non erano italiani, ma slavi, croati, albanesi, erano tutti mescolati.
Com’è cambiato il campo
Il campo, come ho detto, all’inizio era brutto: lo preparavano via via, un po’ alla volta. Così, al posto delle tende, hanno iniziato a costruire delle baracche. Lì i detenuti erano più riparati dal freddo. Avevano dei letti a castello. È arrivato un reggimento con dei camion: portarono il cemento per costruire queste baracche piccoline. Dentro c’erano le cucine, un piccolo corridoio, il bagno. C’era la prigione, la sala operatoria, la casa del colonnello, che si può ancora vedere… avevano il prete il dottore, hanno costruito anche un campo da gioco perché potessero giocare a pallone.
I detenuti che sono sopravvissuti all’inverno stavano meglio, hanno anche cominciato a ingrassare, erano più rilassati. La domenica si andava tutti a messa al campo. C’erano anche i poveri, vecchi, giovani, professori, dottori, suonatori. I detenuti cantavano la messa, era un momento in cui stavano bene. Il campo era diviso in due: c’era il primo settore e c’era il secondo settore; in ogni settore c’erano 2500 persone, in tutto nel campo c’erano 5000 detenuti.
Chi lavorava nel campo di Renicci
Nel campo di Renicci lavorava anche gente del posto. C’erano manovali, muratori, falegnami, gente che lavorava nelle baracche. Entravano la mattina e poi alle 9 chiudevano i portoni e non si poteva più entrare né uscire fino a sera. C’erano i reticolati doppi e ogni trenta metri una garitta. Era tutto illuminato per bene dai lampioni. Ogni sera si sentivano le grida delle guardie: “Guardia numero tale, all’erta” e l’altra rispondeva: “All’erta sto”.
Noi del paese, non potevamo entrare, guardavamo tutto da fuori. Soltanto chi andava a lavorare lì aveva contatti con i detenuti. Allora succedeva che qualcuno facesse degli scambi. Siccome qui coltiviamo il tabacco, c’erano alcuni fra coloro che lavoravano nel campo, che riuscivano a procurarsi il tabacco per gli internati; a quel tempo, c’erano molti controlli da parte della finanza, guai se avevi una sigaretta, un sigaro o una foglia di tabacco in tasca, rischiavi la prigione! I detenuti chiedevano: “Hai del tabacco?” e loro rispondevano: “Se mi capita di trovarlo te lo porto” – “Se me lo porti ti do l’oro”. Pur di fumare un po’, regalavano l’oro e gli orologi che avevano.
Il 1943 a Renicci
E poi venne il ‘43 con lo sbandamento del campo. Un po’ di internati, con dei bastoni, buttarono il reticolato per terra, si sparpagliarono per i monti e, di notte, passarono di qui. Noi pensavamo che volessero vendicarsi su di noi, perché erano stati internati lì dentro, ma loro probabilmente andavano lontano, pensavano che la Jugoslavia fosse lì vicino, dopo il monte. Io pensavo: “Ma dove vai che non c’è da mangiare…”. Un gruppo passò di qui, e la mia povera mamma: “Qua, venite qua” e gli dette un pane. E via nel bosco. La ringraziarono cento volte povera donna, presero il pane e andarono via.
Ma non conviene tornare al campo? Perché è meglio dentro la baracca che star fuori senza niente. E poi infatti, ne ho visti parecchi tornare, ma molti andarono in Calabria con i mezzi di salvataggio e parecchi sono morti. C’è stato un momento in cui il campo rimase vuoto, c’erano più soldati che detenuti. E dopo successe che arrivarono i tedeschi – quattro tedeschi che fecero saltare il campo e li portarono via. Le guardie discutevano fra loro sul campo di concentramento, perché, in seguito alla caduta di Mussolini, sembrava che la guerra fosse finita, invece la guerra cominciò allora.
Oggi
Allora s’era sotto una cappa di piombo, c’era la dittatura, non si poteva parlare, guai a sentire la radio, il giornale, Mussolini non voleva. Adesso c’è la democrazia ognuno può dire quello che pensa, io dico la mia e lei la sua; si può criticare il governo (non offendere, quello non va bene), dire quello che si pensa perché siamo liberi. La dittatura non è bella né nera, né rossa, né gialla, né turchina, glielo dico io che ci sono passato, però secondo me la democrazia è bella, ma ci vorrebbe anche un pizzichino di dittatura, perché oggi non c’è più l’amore come una volta.
C’è troppa gente cattiva, queste bombe sono cose troppo brutte, a momenti se ci ripensa è peggio qui che la guerra, lei è da qualche parte, salta una bomba e rimane ferito o muore… allora non c’era tutto questo. E per il lavoro… Io non trovo più un italiano per fare il mio lavoro. Una volta, d’estate, venivano i ragazzi, ma oggi solo gli slavi vengono qui per lavorare (prima erano internati, adesso vengono a lavorare!). Ce ne sono tre anche in zona che fanno i muratori, sono bravi e lavorano.
I giovani d’oggi
E i giovani… Mi sembra che siano pochi quelli che pensano a come sarà la loro situazione domani. A loro non interessa. Se n’è parlato. Ci sono di quelli un po’ più intelligenti che gli interessa sentirne parlare, quelli un po’ più cafoni non gl’interessa niente. Solo il calcio, la caccia, la pesca. Al bar la sera. Di un avvenire non parlano più… Niente, non gliene frega niente, campano giorno per giorno – come la lepre, si dice qui da noi. E questa è una cosa brutta, secondo me. Perché a un giovane un po’ di fiato sul collo, glielo fo. Per loro, mica per me, perché io oggi ci sono e domani non ci sono più, sono loro che hanno la vita davanti, dovrebbero stare attenti. Darsi da fare. Divertirsi, mi sta bene, perché da giovani ci si diverte; non che s’ammazzano, incidenti, vanno a letto alle due di notte e poi alla mattina si dorme… E chi lavora?
Ma adesso se ne fregano, questa è la vita di adesso, non si cresce, si cala. Non si può far più niente. Una volta in casa c’erano 10-15 persone per famiglia, adesso uno a destra e l’altro a sinistra, c’è la TV da ascoltare, non c’è più l’armonia. Io da giovane non avevo possibilità, ma ci si divertiva, adesso non ci si diverte più. E mi dispiace, perché i ragazzi di oggi sono duecentomila volte più intelligenti di noi: hanno la vita davanti e dovrebbero pensare al loro avvenire.
Luglio 2005
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