La Commissione Europea e gli accordi Italia-Libia
Accordi Italia-Libia
Articolo di Fulvio Vassallo Paleologo
In assenza di strumenti operativi idonei a praticare un’autentica solidarietà con gli abitanti dei paesi più poveri, con iniziative affidate agli enti locali e alle organizzazioni non governative, nel corso degli ultimi anni si è quindi tentato di imporre ai governi degli Stati di transito accordi bilaterali di collaborazione basati sul finanziamento delle politiche di arresto, di detenzione e di espulsione dei migranti irregolari, prima che questi potessero tentare l’ultimo salto, la traversata verso l’Europa. In questa direzione l’Italia e la Spagna hanno offerto gli esempi più eclatanti, nei rapporti, rispettivamente, con la Libia e con il Marocco, concludendo accordi bilaterali e/o intese a livello di forze di polizia che hanno permesso il blocco e l’arresto di migranti, in molti casi potenziali richiedenti asilo e minori non accompagnati, anche se provenienti da paesi terzi, in cambio di trattamenti preferenziali negli scambi commerciali con i paesi dell’area comunitaria. Già nel 2006 si prendeva comunque atto, da parte della Commissione, come l’immigrazione irregolare via mare alle frontiere esterne marittime meridionali dell’Unione europea fosse ormai diventata un fenomeno misto, “comprendente al tempo stesso immigranti illegali che non richiedono particolare protezione e rifugiati che necessitano di protezione internazionale”.
Per la Commissione Europea, quindi, da anni “merita particolare attenzione la portata degli obblighi di protezione imposti a uno Stato dal rispetto del principio di non respingimento, nelle numerose e diverse situazioni in cui le imbarcazioni di uno Stato attuano provvedimenti di intercettazione o di ricerca e salvataggio. Più specificamente, già nella Comunicazione del 2006 sulle frontiere marittime meridionali, si avvertiva la necessità di “analizzare le circostanze nelle quali uno Stato può essere tenuto ad assumere la responsabilità di esaminare una richiesta di asilo in applicazione del diritto internazionale in materia di rifugiati, in particolare laddove tale Stato sia impegnato in operazioni congiunte o in operazioni svolte nelle acque territoriali di un altro Stato, o in alto mare.
Gli orientamenti proposti dalla Commissione europea, e quindi adottati dal Parlamento europeo, riguardano le intercettazioni di navi in mare, le situazioni di ricerca e salvataggio durante le operazioni FRONTEX di sorveglianza delle frontiere marittime esterne e lo sbarco delle persone intercettate o soccorse. Tra l’altro, gli orientamenti prevedono che le unità partecipanti alle operazioni prestino assistenza “a qualunque nave o persona in pericolo in mare, indipendentemente dalla cittadinanza o dalla situazione giuridica dello interessato o dalle circostanze in cui si trova”. Le unità militari FRONTEX, inoltre, dovranno prendere in considerazione l’esistenza di una richiesta di assistenza, la navigabilità della nave, il numero di passeggeri rispetto al tipo di imbarcazione (sovraccarico), la disponibilità di scorte necessarie (carburante, acqua, cibo, ecc.), la presenza di passeggeri che necessitano assistenza medica urgente e di donne in stato di gravidanza o di bambini, nonché le condizioni meteorologiche e marine. Lo sbarco delle persone intercettate o soccorse dovrà essere operato in conformità del diritto internazionale e degli eventuali accordi bilaterali applicabili tra gli Stati membri e i Paesi terzi. Il Parlamento europeo ha ribadito, inoltre, la necessità di un maggiore controllo parlamentare sulle attività dell’Agenzia FRONTEX, anche alla luce delle critiche emerse anche nel corso di audizioni di organizzazioni non governative sulle procedure di respingimento collettivo utilizzate nei confronti dei migranti.
L’obbligo di prestare soccorso in mare e le competenze delle autorità SAR sono disciplinati dal diritto internazionale, che però gli Stati membri interpretano e applicano in modo eterogeneo. Secondo le posizioni del Parlamento Europeo, riconfermate ancora di recente, si intende garantire il rispetto di tale obbligo internazionale e la applicazione del regime introdotto dalla Convenzione SAR ( Search and Rescue), e si stabilisce il principio della cooperazione con le autorità SAR già prima dell’inizio dell’operazione, specificando inoltre quale autorità SAR debba essere contattata qualora l’autorità responsabile non risponda, in modo che tutte le unità partecipanti contattino la stessa autorità SAR.
Le decisioni assunte a livello comunitario sui controlli alle frontiere marittime meridionali non hanno dunque effetti diretti e vincolanti sulle scelte che adottano i singoli paesi quando concludono accordi bilaterali di respingimento e di riammissione. Tuttavia, quando la sorveglianza dei mezzi forniti dall’agenzia Frontex, in supporto alle attività degli stati membri impegnati nell’attuazione degli accordi bilaterali riguarda le frontiere marittime è evidente che devono essere rispettati il diritto internazionale del mare e il diritto internazionale marittimo. Analogamente, tali operazioni non possono essere condotte in violazione dei diritti umani, compresi i diritti dei rifugiati, come già disposto dal codice. La proposta della Commissione e la successiva decisione del Parlamento Europeo del marzo di quest’anno osservano scrupolosamente questo quadro normativo internazionale: il loro fine è aumentare il rispetto di questi principi nello svolgimento delle operazioni, introducendo nel contempo un grado di uniformità nell’applicazione del quadro normativo da parte di tutte le unità operative che partecipano alle operazioni.
Solo a partire dal marzo del 2006 il Ministro dell’interno Pisanu, ancora in carica per poche settimane prima dello scioglimento delle camere, aveva sospeso le deportazioni dai centri di detenzione italiani, Crotone in particolare, verso la Libia e l’Egitto, mentre era aperta una indagine del Parlamento Europeo per accertare le responsabilità nelle espulsioni collettive effettuate da Lampedusa verso la Libia a partire dall’ottobre del 2004. Come spesso avviene in questo campo, una volta interrotta la prassi abusiva viene meno l’interesse degli organismi comunitari ad accertare le violazioni perpetrate dagli stati membri, anche se si tratta di violazioni che hanno compromesso il destino ed in qualche caso la stessa vita di migliaia di persone.
Ma che la limitata attività dell’ACNUR in Libia sia stata brutalmente interrotta da una decisione di Gheddafi nel giugno del 2010 è inconfutabile, e la stessa possibilità che l’ACNUR possa ritornare a seguire alcuni casi, si riferisce solo a quei pochi casi che gli agenti dell’ACNUR avevano potuto prendere in carico direttamente visitando detenuti nei pochi centri di detenzione libici per i quali era stato consentito l’accesso, restando ancora oggi precluso in Libia qualsiasi accesso dei richiedenti asilo alle procedure per ottenere uno status di protezione internazionale.
A tale proposito non si può neppure ignorare la posizione, duramente attaccata dal governo italiano, del Commissario ai diritti umani Hammarberg sui respingimenti e sul trattamento che i migranti respinti in Libia subiscono da parte delle forze di polizia. Come non si possono ignorare i rapporti di HRW e di Amnesty sulle gravissime violazioni dei diritti umani Libia, né gli esposti dell’ ASGI circa le violazioni del diritto comunitario occorse nell’estate del 2009 con la pratica dei respingimenti collettivi in alto mare. Nessuno può ritenere risolto il problema dei respingimenti collettivi in acque internazionali solo perché oggi non sono più i mezzi della Guardia di finanza ad effettuarli, dopo che l’Italia ha delegato i respingimenti alle motovedette italo-libiche, in quanto una specifica clausola degli accordi italo-libici del 2007 ( cd. Protocolli Amato) prevedono una catena di comando unificata a partecipazione italiana e libica, seppure a guida libica, e dunque tutte le operazioni di blocco in mare e di deportazione compiute dalle motovedette regalate a Gheddafi dall’Italia impegnano direttamente la responsabilità dell’Italia davanti all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ed alle istituzioni comunitarie. Ne possono assumere rilievo le assicurazioni, fornite in diverse occasioni alla Commissione Europea dall’Italia, che la Libia non avrebbe proceduto al rimpatrio forzato di nessun eritreo, perché il rischio di deportazione incombe comunque sui migranti eritrei che in Libia non riescono ad ottenere il riconoscimento di rifugiato, e che da migranti economici sono schedati dai funzionari dell’ambasciata del loro paese, che, come è noto ovunque, meno forse a Bruxelles, ha mezzi molto efficaci per convincere i fuoriusciti a fare rientro “volontario” nel loro paese, magari per non esporre a ritorsioni i parenti più cari.
Rimane in ogni caso da verificare fino a che punto la Commissione Europea, a differenza del Parlamento Europeo, valuti positivamente gli accordi tra Italia e Libia, e probabilmente anche quelli tra Malta e la stessa Libia, limitandosi a costatare come il numero degli sbarchi sulle coste insulari italiane nel corso dell’ultimo anno sia drasticamente diminuito. Una posizione che contraddice le precedenti posizioni della stessa Commissione sull’esigenza di rispettare i diritti umani dei migranti e, trattandosi di “flussi misti”, di garantire il diritto di accesso al territorio europeo dei potenziali richiedenti
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