La Levatrice Melania
La levatrice Melania: questa poesia è stata scritta per la mia nonna ostetrica da un sacerdote-poeta che, da bambino, le abitava vicino.
Noi fanciulli vicino alla tua casa… la cimasa dei frulli. Tradivamo
i trastulli dei fratellini non ancora nati. Dentro abitavi tu,
la Levatrice. Ed in punta di piedi passavamo.
La mamma mi narrava ch’eri rimasta vedova di guerra: la
Grande Guerra e una bambina piccola. Ma poi, tra le macerie,
nell’Altopiano a germogliare l’amore del tuo Angelo,
intelligente e brusco.
La famiglia di tre maschi e le più fini figlie della contrada,
la tua pazienza e mitemente la porta e le finestre di silenzio
fasciate, di meriti molteplici.
Ed ecco uscivi. Timido sulla svolta io mi celavo.
Andavi come Qualcuno ti chiamasse.
Sollecita sul passo di betulla: incavavi una culla.
Come nel cielo la Maggiore orsa, così nella Gran Borsa tu
custodivi, la nonna mi svelava, il bambino che doveva
nascere. E ti spiavo e… sì: qualcuno si muoveva, ancora
senza chiasso, nel cantone più basso.
Chissà da dove mai l’avevi preso? Dalla Città… dove
avevi studiato l’ostetricia. Oppur dalle montagne di dov’eri
discesa qui al paese negli anni trenta.
E, quasi sempre, dall’alto del mio platano alla Brega, ti
Vedevo che uscivi verso sera e all’alba ritornavi.
Proprio diversa dalle nostre mamme.
Andavi all’ospedale giorno e notte, disponibile tutta. Di
solito però giravi per le case, ad assistere ai parti, mi
spiegava la zia. Perché nei tempi antichi, tanto aprichi,
si veniva alla luce di solito
nel letto favoloso dei nostri genitori.
Fino a quell’imbrunire di domenica.
E giri per la stradina senza nessuno più.
Qui m’incrociasti con i tuoi scuri occhioni.
Mi radiavano fondi e confidenza.
Mi contavi la storia dei tuoi capelli neri…
perché, da giovane,
eri salita in Austria, a far carbone… io sulle tue ginocchia:
ti brillava la crocchia.
Mi pettinavi tutto di fantasia: centomila capelli d’allegria…
Ma pissi pissi, un biribissi segreto tra noi due. Il dito tu
io l’anima che ti ruotavo intorno. Fino a che mi placavo
proprio qui, con un calore.
E mi mostravi ch’era l’amore e per ciascuno occorre avere
un cuore: “Se tieni il pugno chiuso, non perdi nulla, ma ne
resti deluso, però non ti vien dentro niente (e quanto
ti potrebbe donare la gente!)”.
E da quel dì ti piacque che spiassi alla finestra. Con la
destra tagliavi da maestra perfetti vestitini per
i bambini poveri dell’Astichello.
Quelle bambine schiene, per il penare piene, ad incurvarsi già.
Con quanta abilità le tue mani d’affetto nel massaggio,
raggio di sole a scioglierle diritte.
Ahi, no che ti morisse un piccolino! Così un mio fratellino
di quattordici giorni. E tu di pietra bruna fissa sopra
la cuna e la passione a farti di caverna.
Questo nostro paese ti ricorda come santa materna. E quella
riverenza di fanciullo in me, vecchio, si eterna.
Che’ “Guardadonna” gli avi ti nominarono. Ad indicare la
preziosità assoluta del grembo d’ogni donna.
E tu mi hai decifrato quelle parole di pronuncia a forcipe:
“Ostetrica”, colei che sta di fronte, che sostiene mia madre,
e giungo al vivere.
Più avanti ho inteso che “Levatrice” dice: la tenera che leva
dalla matrice Il frutto d’ogni frutto.
E ora io qui Teologo del Ventre “Raccoglitrice” io ti chiamo
ispirato, perché cogli i figlioli degli uomini e ad uno ad
uno li presenti a Dio, primizia offerta a Lui che in Sé
Li eterna.
don Giovanni Costantini
Che ricordo meraviglioso della nonna Melania. Bella anche la poesia.
Sì Roberto, davvero un bel ricordo ed una bella poesia!
Grazie del commento!