Lasciami la mia pelle nera

Cheikh Tidiane Gaye, pelle nera

Da oggi in libreria l’ultimo lavoro dello scrittore italo-senegalese  Cheikh Tidiane Gaye: “Prendi quello che vuoi, ma lasciami la mia pelle nera” edito da Jaka Book.

Il poeta rivendica con forza la sua Negritudine insieme alla sua italianità e, dato che scrive in italiano, rifiuta di essere catalogato come scrittore migrante, perché la sua opera, dichiara, fa parte della produzione letteraria italiana.

I versi che seguono si trovano nella home page del suo sito.
Sul binario della pazienza arriva il
giorno lontano dalla notte
malinconica. La mia vita è una
conclusione che disserto all’alba e
non so in quale notte canterò di
nuovo per addobbare il mio albero
che rifiuta di fiorire i miei sogni.
Cheikh Tidiane Gaye, nato in Senegal, sposato e padre di tre figli, è cittadino italo-senegalese residente ad Arcore, in Brianza. Poeta e scrittore, è presente in varie antologie ed è membro del Pen Club Internazionale Lugano Retromancia Svizzera. La scrittura è sempre stata la sua passione più o meno segreta, sbocciata in ambiente e lingua italiani. Ha pubblicato con le Edizioni dell’arco: “Mery principessa albina” (2005), “II canto del djali” (2007) e “Ode nascente” (2009); e inoltre: “II giuramento” (Liberodiscrivere editore, 2001), “Curve alfabetiche” (Montedit Edizioni, 2011) e “L’Etreinte des rimes/Rime abbracciate” (L’Harmattan, Paris 2012).

Dalla quarta di copertina:

Nella forma di lettere all’amico Silmakha, un cittadino italo-senegalese con impiego in banca a Milano vuole trasmettere il disagio che prova nello stare in quella che potremmo chiamare la società sviluppata. Il suo non è il rifiuto di un mondo, perché in questo mondo l’autore vuol vivere: ormai è anche il suo mondo, in cui però non si sente accettato, non si sente parte a pieno titolo. Questa città, di cui l’autore parla perfettamente la lingua, lo vorrebbe diverso. In fondo si dovrebbe spogliare della sua pelle nera, dei suoi legami culturali, di ciò che per lui è il valer la pena, e la gioia, del vivere. L’opera è da un lato una raccomandazione al fratello e ai suoi di non spogliarsi di se stessi, dall’altro una critica interna alla società che si vuole democratica e del diritto, e di cui l’autore vuole far parte, ma a cui è costretto a porre una domanda: «II muro è storico, ma l’esperienza è sempre profetica. Per sconfiggere l’odio e il rancore occorre maggiore giustizia. Non dobbiamo avere paura. Dove sono finiti oggi i diritti e la legalità?». Alla domanda si aggiunge la messa in questione di un modo di vivere. «Non si può uccidere in Vietnam, in Africa, malmenare innocenti, rubare loro le materie prime, prosciugare i loro pozzi di greggio, inquinare l’ambiente, sfruttare il lavoro minorile, stuprare le donne, incendiare villaggi, complottare per capovolgere regimi eletti democraticamente, abbattere gli altrui luoghi di culto, seppellire credenze, umiliare dignitari, vendere armi, incitare alla guerra, sacrificare il destino di molti giovani, discriminare, infangare, e poi osare definirsi CIVILI!».

Dalla Prefazione di Giuliano Pisapia:pelle nera

Questo libro racconta una storia da cui si dipanano altre storie, a volte sgranate come in rosario, altre ripescate con incursioni nella memoria. È una lunga affabulazione che ha per oggetto l’identità: ogni uomo ne possiede una, inalienabile e necessaria; ma, a volte, altri uomini provano a strappargliela, in nome dell’omologazione. Accade allora che qualcuno si lasci derubare e che altri, come Gaye, si fermino, alzino e la testa e dicano: “No!”. E non per sé, ma per tutti coloro che non hanno voce: in particolare per “tutti gli immigrati d’Italia, i profughi, i rom e gli zingari che ogni giorno devono convivere con atti discriminatori”.
[…]
Si può mutare tutto questo, a patto che lo si voglia. Che si provi a guardare la Storia, la specie umana, la vita con occhi diversi. Quello che i Nuovi Italiani chiedono è quello che ogni democrazia ha il dovere di garantire: “Voglio essere me stesso, guardare il futuro e difendere i miei diritti. La vita nei nostri paesi è molto difficile, in occidente lo è lo stesso. Quando lotteremo facendo prevalere i nostri diritti abbinandoli ai nostri doveri, continuiamo la nostra lotta: uguaglianza e diritti sociali”.
Proprio su questo postulato, così difficile da accettare per troppi, si chiude il libro, in una lettera piena di tenerezza, orgoglio e passione al figlio mulatto: “Hai un’eredità: la fiamma dell’uguaglianza deve illuminare ogni stanza buia e sofferta”.

Questa è una speranza; ma per noi realizzarla è un dovere.

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