Lo zoccolo
Lo zoccolo. Ti ricordi lo zoccolo?
Quella volta, di corsa a prendere il treno. Di corsa, di corsa…
Ed ecco che lo zoccolo ti scivola fra il margine che sta tra la porta del treno ed il marciapiede. Un piede sul treno e l’altro, nudo e senza zoccolo, per aria, e tu a guardare sotto il binario. Dietro di te c’è un giovanotto: lo guardi come a dire: “Me lo prendi? Dai, che il treno parte!”. Cioè, non è uno sguardo supplichevole, è una richiesta quasi imperativa, direi dolcemente imperativa. E lui si china, raccoglie il tuo zoccolo e, con la punta dell’indice destro, te lo porge.
Schifato, si vede.
Ci stai male. Ma come? In quello zoccolo ci sono io. Lì si sono rappresi i miei passi, si sono depositati i miei viaggi, le mie stanchezze, le mie corse; il mio sudore l’ha ben bagnato, macchiato. C’è un gran pezzo di vita lì, un gran pezzo di me. E prendere lo zoccolo così, con la punta dell’indice, è un modo per rifiutarmi. Come si permette, ‘sto barbuto ragazzetto?
Potrebbe essermi figlio, lo sciagurato…
Magari, chissà, il figlio avuto da quell’uomo tanti anni fa e che non ho più visto.
Anche lui aveva la barba.
Il ragazzetto barbuto gli somiglia, mi pare: sì gli somiglia ma, per fortuna, se n’è già andato.
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