Obbligato a prendere la barca
Con una mitragliatrice davanti ho dovuto prendere la barca
Comunicazione Black Reality
Con la convinzione che l’arte possa farsi provocazione, stimolare il dialogo e la discussione, rompere gli stereotipi il progetto Black Reality, riconosciuto quest’anno Officina di Teatro Sociale della Regione Lazio 2014-2016, ha proposto diversi laboratori con i migranti. L’11 e il 12 aprile 2015 al Teatro Furio Camillo di Roma il progetto in due giorni ha lasciato all’arte, al video e al teatro, la capacità di scuotere dove i discorsi degli uomini falliscono. La seconda edizione della rassegna Black Reality è stata promossa con il sottotitolo “Odio gli indifferenti!”.
Qui le testimonianze dei rifugiati dello Sprar Eta Beta di Roma sono state diffuse e devono essere diffuse per rioffrire una giusta chiave di lettura alle motivazioni dei numerosissimi migranti che arrivano in Italia.
“Vogliamo provare a raccontare quello che ancora non si dice, si comincia a sussurrare, ma non viene detto. – spiegano Gianluca Riggi e Valerio Gatto Bonanni, ideatori del progetto Black Reality – Perché, quando li incontri, questi viaggiatori ti raccontano una storia diversa, di un Mediterraneo che è divenuto una discarica umana. Il viaggio è cambiato in questi anni, come è cambiato il nostro mare, un luogo di smaltimento di rifiuti umani. Si parte da casa, ma non è una partenza, è una fuga da una dittatura, da una guerra, da un campo di addestramento, perché tutti si deve combattere, da una parte o dall’altra, devi solo scegliere su quale lato del fronte vuoi stare, altrimenti, se non vuoi scegliere, fuggi dalla mattina alla sera senza una valigia, senza soldi, solo quelli per una corriera che ti porterà in Burkina Faso o in Niger. Qualcuno non ha neanche il tempo di salutare i genitori, i fratelli, gli amici, scappi e basta. E con quaranta euro, anche meno, anche niente, inizi ad attraversare il deserto per la Libia. E arrivi, se arrivi, a Sabah, prima città libica nel deserto del Sahara. Se il camion s’è rotto devi camminare, tre, quattro, sei giorni. Dalla Somalia o dall’Etiopia i giorni diventano quindici o venti, un poco a piedi, un poco in auto. Si parte in trentatré e si arriva in quindici. Prima di morire li senti dire “cibo, acqua” e poi si spengono sulla sabbia rovente del Sahara, si continua a camminare, se ti fermi potresti non avere più le forze per andare avanti.
A Sabah si entra di notte, di nascosto, due a due, da lì si riparte poi per Tripoli, magari nel portabagagli di un’automobile, magari in dieci, uno accanto all’altro come biscotti savoiardi”.
“A Tripoli devi trovarti una casa e devi pagarla – ci hanno raccontato i partecipanti al laboratorio che ha dato vita al breve spettacolo “L’intervista” di Giovanni Greco, – un lavoro anche, ma le case da affittare appartengono a bande criminali, a bande di ribelli, a bande e basta. Lavori per loro gratis e paghi la casa, quando non servi più ti vendono da una banda all’altra e ricominci a lavorare senza essere pagato, fino a che non servi più a nessuno, ne sono arrivati altri nel frattempo. A volte ti fanno telefonare a casa, a mamma e papà, se hanno i soldi da inviarti ti liberano, ma se avessi avuto i soldi non saresti scappato forse, a piedi nel deserto, magari avresti preso un aereo, se avessi avuto i soldi. Altre volte a Tripoli ti ferma la polizia, la polizia ti arresta, ti porta in prigione, puoi starci un mese o un anno. La mattina ti svegliano picchiandoti e poi ti danno una tazza di latte, del formaggio, pane, un pasto al giorno. Ogni sera vai a letto sapendo che domani ti sveglieranno picchiandoti. Anche la polizia ti fa telefonare a casa, se ti inviano i soldi sei libero, ma se avessi avuto i soldi te la saresti già comprata la tua libertà, se avessi avuto i soldi.
Arriva il giorno che non servi più a nessuno, come schiavo sei divenuto inutile, come prigioniero anche. Altre centinaia di ragazzi e uomini hanno attraversato il deserto e sono giunti a Tripoli, carne fresca da macellare. E allora ti portano in una casa al mare, e ti ci porta la banda criminale, e ti ci porta la polizia, poi una notte quando in casa siete diventati settanta, ottanta, cento, si va tutti
in spiaggia, nessuno sa nuotare, forse uno ogni venti sa fare due bracciate a stile libero, non ci sono piscine in Mali dove imparare a nuotare. C’è una barca di sette metri per due, sette persone al metro, settantacinque persone, se la barca è dieci metri per due possono starcene anche centodieci. Devi stare seduto con le ginocchia attaccate al petto, divaricate, perché fra le tue gambe si posizionerà un altro. Nessuno vuole salire, tutti hanno paura, i poliziotti prendono le pistole, sparano, uno, due, tre, quattro volte, quattro corpi sulla sabbia. E allora si sale in barca, si va, si parte, per dove non si sa, il viaggio può durare un giorno come quattro, forse morirai tra le onde, forse una nave italiana ti salverà, guardi il mare e pensi “Inshallah”.
Ecco che il mare diviene una discarica umana, uno smaltimento di rifiuti umani, d’altra parte ucciderli sarebbe un problema, come smaltire i corpi di duecentomila, trecentomila schiavi ogni anno; ad Auschwitz sperimentarono i forni, in Libia si usa il mare, è più semplice, meno complicato, meno rimorsi sulla coscienza e “Se arrivi in Italia potresti anche dovermi ringraziare”.
Di seguito riportiamo delle storie vere, così come ce le hanno raccontate, l’italiano traballa, ma non le abbiamo rimaneggiate, sono autentiche:
22 settembre 2010 – Il giorno della festa di Indipendenza del Mali città di Gundara a 6 km da casa mia. Grande festa, molta gente, tanta confusione. Si canta, si balla, ci sono le gare e i giochi con i cavalli, si mangia e si beve. Quando scendo dalla mia moto vedo tante persone, una folla, e tra la gente ho visto una ragazza bellissima che batteva le mani, era alta come me, i capelli lunghi, gli occhi come i miei, si chiama Asha. Io vado da lei, la saluto e lei risponde al mio saluto. Quando però le parlo lei non dice niente, due volte le rivolgo la parola e due volte lei non dice niente, la terza volta invece parla: Che cosa vuoi? – Come va la famiglia? – Bene! – Perché due volte ti ho parlato e tu non hai risposto? – Qui ci sono tante persone, non posso risponderti qui, e mio padre mi controlla sempre, mio padre è Muslim! – Tu sei una bella ragazza. – Grazie. – E non è diventata rossa, ma è rimasta nera!
Tu sei una ragazza bella e gentile. – Grazie, e tu sei un bell’uomo! – Oggi gioco a calcio, vuoi venire a vedere la partita? – Si! – E quindi siamo andati insieme alla partita. Dopo la partita l’ho riportata a casa con la moto, le ho detto: Mi piaci! – Anche tu!
Mio padre si è ammalato alla testa e tutti i giorni lo portavo in ospedale con il taxi per le cure, l’ospedale si chiama Fonse. Un giorno al ritorno la strada era bloccata dai soldati che dicevano di andare con loro a fare la guerra, a combattere. Hanno lasciato andare mio padre perché era malato, si vedeva che stava male, e mi hanno portato via, in prigione, per quattro giorni. Tutte le mattine ci facevano correre, il quarto giorno sono scappato, sono scappato perché non volevo diventare un soldato e fare la guerra, era l’ultimo dell’anno, il 31 dicembre, e sono tornato a casa. Mio padre mi ha detto -Devi andare via. – Non posso andare via perché tu stai male, chi ti porta in ospedale se io vado via? – No, tu devi andare via, tu sei un bambino e non mi piace che tu muori adesso! Io sono vecchio, tu devi andare via!
Mi ha dato i soldi per prendere l’autobus e andare in Burkina Faso. Alla frontiera i soldati ci hanno fermato per il controllo, ed io ho avuto paura, sono andato da una ragazza a chiedere aiuto e lei mi ha aiutato. Lei aveva un lasciapassare da commerciante, la ragazza ha detto ai soldati che io lavoravo per lei, che ero il suo aiutante. Dal Burkina Faso con 40 euro sono passato in Niger, la ragazza mi ha trovato uno chauffeur, un autista, anche lui alla frontiera con il Niger ha raccontato che io lavoravo per lui, ero il suo aiutante. Con altri 25 euro sono passato dal Niger alla Libia, nel deserto, il Sahara.
Sei giorni di deserto in Libia, il camion si è rotto, eravamo 33 quando siamo partiti ai confini del Sahara e siamo arrivati in 15, dopo tre giorni a camminare senza bere, senza mangiare, sotto il sole. Vedi le persone morire e non puoi fare niente, devi solo camminare, e non riesci più a stare bene con te stesso, perché ci pensi sempre, io ci penso sempre, è così.
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Mi chiamo XXXXX. In Senegal ero un commerciante di olio rosso. Lo compravo e lo rivendevo al mercato, poi sono andato nell’esercito per alcuni mesi, ma mia madre si è sentita male ed è rimasta paralizzata.
Io sono andato da lei, ma quelli dell’esercito mi cercavano e così sono scappato. Sono arrivato in Mali e dal Mali in Burkina Faso.
Quindi dalla Burkina sono passato in Niger e dopo 4/5 giorni di deserto prima in camion e poi in macchina sono arrivato a Sabah, prima città della Libia. Da Sabah sono andato a Tripoli. Ho cercato una casa ma non l’ho trovata, ho dormito all’aperto per 2/3 giorni prima di trovarla. Non avevo soldi, così ho dovuto lavorare come muratore per un anno. In realtà quelli che mi davano il lavoro, erano dei banditi che mi chiedevano soldi in continuazione: delle volte mi portavano in campagna oppure mi chiudevano in una casa per una settimana e mi dicevano di chiamare la mia famiglia per farmi mandare dei soldi. Ma non c’erano soldi da mandare. E dopo un anno, una notte mi hanno preso e mi hanno portato in un’altra casa e lì ogni giorno hanno portato molte altre persone. Finché una notte ci hanno preso tutti e ci hanno portato in riva al mare. C’era una piccola barca che ci aspettava, forse lunga 7 metri e larga due, noi eravamo almeno 75 persone. Ci hanno costretti a salire e c’era uno che guidava. Il mare era brutto e il tempo era brutto, era ottobre. Abbiamo viaggiato per tre giorni e tre notti senza cibo e senza acqua se non l’acqua di mare. Sul fondo della barca c’era molta benzina e questa insieme all’acqua di mare bevuta provocava nausea e vomito. Il terzo giorno ci ha trovato una nave della marina italiana che ci ha portato a Siracusa. Poi da lì dopo un mese sono arrivato a Roma.
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Mi chiamo XXXXX. Vengo dal Mali. A 15 anni mio padre mi ha venduto a suo fratello, mio zio, che non aveva figli per lavorare come pastore e come agricoltore. Ho lavorato con lui per 9 anni, ma poi mio zio ha litigato con sua moglie e ha deciso di andare via in Europa. Mi ha detto: Quando torno dall’Europa, tu puoi ritornare a lavorare con me. Ma io nel frattempo ero rimasto senza lavoro e senza fidanzata. Perché avevo una fidanzata e ho litigato con il padre di lei. Lui voleva che ci sposassimo, ma io non avevo soldi e non avevo lavoro. E allora mi ha detto: Se non la lasci chiamo la polizia. Lei non voleva che io andassi via perché era innamorata di me. Suo padre si è molto arrabbiato e anche mio padre si è molto arrabbiato e mi ha detto: lasciala questa ragazza, ne troverai un’altra. Ma io non volevo lasciarla perché l’amavo e lei amava me. Le due famiglie si sono incontrate e siccome non avevamo soldi, non poteva esserci il matrimonio e allora senza lavoro e senza fidanzata, ho deciso di andare via dal Mali. Sono arrivato in Niger in camion in un viaggio di 5 giorni e da lì, passando 10 giorni per il deserto, sono arrivato in Libia, a Sabah, nonostante durante il viaggio si fosse rotta la macchina che ci portava. A Sabah e anche dopo fino a Tripoli abbiamo passato molti checkpoint nascosti nel portabagagli di una Toyota, dov’eravamo in 10, quasi senza aria e senza poter fare nessun rumore.
Quando sono arrivato a Tripoli però i poliziotti mi hanno visto per strada e mi hanno catturato e portato in prigione. Mi hanno chiesto dei soldi, ma io non ne avevo. I poliziotti, dopo 1 anno e 6 mesi mi hanno venduto ai mercanti di uomini che mi hanno portato in una casa vicino al mare, dove sono rimasto per 15 giorni e l’unico pasto era la colazione. Una notte ci hanno portato in riva al mare, non conoscevo nessuno, c’era una piccola barca che ci aspettava, eravamo almeno 70 persone. Il mare era brutto, nessuno sapeva guidare, non volevo salire ma ci hanno puntato le pistole e ci hanno costretto a farlo. Dopo 4 giorni di mare, una nave della marina italiana ci ha trovato, ci ha soccorso e ci ha portato a Pozzallo, in Sicilia.
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Mi chiamo XXXXX. Vengo dal Mali dove ero un pastore: avevo mucche, capre, un asino. Nel 2010 è cominciata la guerra con i musulmani che volevano imporre la Sharia. E volevano che mi unissi a loro come soldato. Un giorno di guerra molto brutto io ero con i miei animali al pascolo, sento di combattimenti e di bombe, torno a casa e non trovo più nessuno. Ho cercato mio padre, mia madre e non riesco a trovare nessuno perché hanno distrutto tutto. Ero solo ed era pericoloso rimanere lì. Sono andato a Gau, la città più grande e più vicina. Ma appena arrivato mi hanno visto e mi hanno catturato e mi hanno portato in un campo di addestramento per reclute. C’erano moltissime persone e nella mia stanza altre 5 persone oltre me. Ho capito che se non mi fossi unito ai soldati dell’esercito, mi avrebbero ucciso. Così insieme ad altri sono riuscito a scappare durante la notte e ho trovato la possibilità di andare in Burkina Faso. Ho bloccato un uomo che passava con una macchina, gli ho raccontato la mia storia e lui mi ha aiutato a scappare. Sono rimasto due settimane in Burkina, nella capitale e da lì sono andato in Niger. Poi, dopo 11 giorni di deserto sono arrivato a Sabah in Libia. Ho passato moltissimi checkpoints e ogni volta ci chiedevano 20 dinari. Io non li avevo e così ci hanno venduto a un libico che ci teneva in una stanza e ci diceva di chiedere soldi alle nostre famiglie: ma io ancora oggi non so che fine ha fatto la mia famiglia. Sono rimasto tre mesi a Sabah e poi il libico che mi aveva comprato mi ha rivenduto a quello del Niger, il quale mi ha lasciato libero. Da Sabah sono riuscito ad andare a Tripoli, dove sono rimasto 1 anno e 3 mesi e ho lavorato come muratore con un tipo che non mi pagava. Un giorno gli ho detto: io non lavoro più se non mi paghi e allora lui mi ha portato in riva al mare, una notte. C’erano molte altre persone e ci costringevano a salire su una barca che non era in buone condizioni. Il tempo era brutto e il mare era brutto. Il viaggio è durato tre giorni finché una nave italiana ci ha preso e portato a Taranto. Da lì sono andato ad Acquaviva e quindi a Roma.
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