Ocse e integrazione italiana
Immigrati, sei miti da sfatare. l’Ocse striglia l’Italia sull’integrazione
In un rapporto pubblicato oggi, l’Organizzazione internazionale per lo sviluppo economico mostra i numeri, e i difetti, delle nostre politiche rivolte ai migranti. Con un monito: o si cambia verso o la situazione continuerà a peggiorare. Perché una cosa è certa: il loro lavoro è necessario. E oggi, continuamente sfruttato.
Forse non arriva nel momento migliore, la dettagliata – e arcicritica – nota dell’Ocse sull’integrazione degli immigrati in Italia. L’Organizzazione mondiale per lo sviluppo economico ci striglia infatti proprio nel momento in cui dobbiamo chiedere aiuto all’Europa per gestire un numero di sbarchi senza precedenti: solo nell’ultimo weekend le navi di Mare Nostrum hanno soccorso oltre 2600 migranti diretti alle nostre coste e provenienti da Eritrea, Congo, Sudan, Algeria.
A prescindere dal tempismo, le annotazioni dell’istituto internazionale sulle politiche italiane d’integrazione, soprattutto per quanto riguarda il mercato del lavoro, sono durissime: sfruttamento, lavoro in nero, bassa qualificazione, fondi dispersi o non utilizzati, piani fallimentari e burocrazia-monster capace di lasciare decine di migliaia di immigrati regolari e contrattualizzati ancora in attesa di un permesso di soggiorno. Ecco le strigliate più dure dell’Ocse al nostro Paese. Che sfatano altrettanti miti sugli immigranti “che ci rubano il lavoro” o per i quali “spendiamo decine di euro al giorno”.
È vero: sono tanti.
«L’Italia è il Paese Ocse che dal 2000 ha ricevuto i più alti flussi migratori, sia a livelli assoluti che in percentuale sulla popolazione totale». Nel suo rapporto, l’istituto conferma quindi l’aumento della presenza di stranieri sulla penisola. Anche se con alcuni “però”. Sono, ad esempio, solo «l’11 per cento della popolazione in età lavorativa», un dato «inferiore rispetto alla maggior parte degli altri paesi Ocse con Pil simili». In più la percentuale di immigrati per motivi umanitari (quindi rifugiati politici, o richiedenti asilo), è ancora molto bassa rispetto ai nostri vicini Ue. Inoltre, ricordano gli autori dell’analisi: «gli italiani all’estero rappresentano ancora una delle più grandi e diffuse diaspore di qualsiasi paese dell’Ocse». Insomma: c’è chi va e chi resta. Quindi la domanda è chi resta?
È falso: ci rubano il lavoro.
Ecco la risposta al “chi resta”: forza lavoro scarsamente qualificata. Arrivata non per “rubarci il mestiere” quanto perché siamo noi ad averglielo richiesto. «Negli anni ’70 i centri industriali italiani avevano maggiore bisogno di manodopera immigrata», scrivono gli analisti: «La portata e la diffusione dell’economia sommersa e l’elevata percentuale di piccole imprese hanno reso relativamente semplice, per gli immigrati privi di documenti, la ricerca di lavoro in Italia». Il richiamo oggi non è finito: ha solo cambiato settore: «Con la terza percentuale più alta in tutta l’area Ocse di persone anziane, l’Italia ha un bisogno strutturale di badanti qualificate», ricordano gli economisti: «Il ricorso a donne immigrate sottopagate è diventato così uno dei meccanismi per compensare l’insufficienza di servizi pubblici». L’Inps infatti, è disposta a erogare solo contributi minimi per chi ha bisogno di assistenza e così arrivano a compiere quel mestiere «ucraine, peruviane e filippine non in regola». Una situazione che si potrebbe risolvere? Sì, forse, iniziando ad esempio, suggerisce l’Ocse a «sostituire l’indennità di accompagnamento con buoni-servizio», ovvero contributi economici costanti per il sostegno, versati solo se la badante è regolarizzata. «Questo potrebbe permettere a molti dipendenti di avere un lavoro almeno parzialmente formale», insistono gli studiosi, soprattutto in un ambito, come quello della cura domestica, dove ci sono poche prospettive di carriera o di tutela.
È vero: sono sfruttati.
Gli immigrati sono occupati principalmente in mansioni che l’Organizzazione mondiale definisce “vulnerabili”: edilizia, cura, agricoltura. Posti senza prospettive a lungo termine, sottopagati, e con scarse possibilità di diventare professionalità qualificate. Così, gli stranieri per esempio «hanno beneficiato poco delle politiche di riforma del mercato occupazionale», spiegano gli autori: «perché concentrati in settori come l’edilizia e i servizi assistenziali, o in piccole aziende a conduzione familiare, dove l’informalità del lavoro è più difficile da contrastare». E dove la crisi ha colpito più duramente. Anche per questo la disoccupazione tra i migranti è passata dal 5,3 per cento del 2007 al 12,6 per cento del 2012, mentre per i nativi – noi – dal 4,9 al 9,7. Altro dettaglio non di poco conto: dal 2012 anche gli stranieri regolarmente residenti possono fare richiesta per accedere a posti pubblici. Ma non c’è nessun piano nazionale dedicato alla diversità, e quindi alla loro assunzione.
È falso: spendiamo troppo.
«Nel complesso, le spese legate all’immigrazione rappresentano meno del tre per cento dell’intera spesa sociale», sancisce l’Ocse: «molto meno dei fondi dedicati alle politiche per l’infanzia (circa il 40 per cento), la famiglia, per disabili e anziani (circa il 20 per cento ciascuna)», anche se naturalmente «gli immigrati sono inclusi tra gli utenti della politica sociale generale a livello locale». I soldi specificatamente destinati per l’integrazione sono però pochi, e spesi male. «Il Fondo nazionale per le politiche migratorie, una parte del fondo sociale nazionale, ha sofferto della riduzione generale dei fondi sociali, passando da 16,5 milioni di euro nel 2006 a 6,2 milioni di euro nel 2012 e a 6,8 milioni nel 2013», scrivono gli autori: «Le risorse comunitarie destinate alle iniziative relative all’immigrazione sono tuttavia aumentate (il Fondo europeo per l’integrazione è salito da 15,1 milioni del 2009 a 37 milioni nel 2013)».
Questo però, a fronte di un’incapacità di usarli, i fondi: «nel 2010 dei 31 milioni di euro preventivati dalle regioni, solo il 18 per cento è stato erogato, un ulteriore 40 per cento assegnato ma mai trasferito», spiegano: «I fondi rimanenti (il 42 per cento nel 2010) vanno persi». Le cause? «Scarsa capacità di gestire le risorse, inefficacia degli erogatori di servizi o indirizzamento scorretto». Il risultato è chiaro: i finanziamenti restano nel cassetto. In questo modo, si creano pure delle distorsioni. Come ad esempio il fatto che per avere un permesso di soggiorno si sottoscrive un accordo in cui è prevista una conoscenza a livello “A2” dell’italiano. Ma le ore di formazione linguistica garantita sono 100, «rispetto alle 300 in altri paesi europei». Insomma, diamo doveri, ma nessuno strumento per raggiungerli. Perché questa confusione? Perché «non esiste un piano antidiscriminazione», scrivono gli esperti: «gran parte delle proposte sono di piccole dimensioni e di breve durata, poco coordinate tra loro e con una generale mancanza di consapevolezza su ciò che funziona o meno».
È vero: per i Comuni i costi sono alti.
Se lo Stato, in fondo, non spende quanto potrebbe, gli enti locali si trovano invece sovraccaricati. E questo lo ammette anche l’Ocse: «Due categorie, in particolare, assorbono gran parte delle risorse comunali», spiega il rapporto: «La prima è rappresentata dai minori stranieri non accompagnati, la cui accoglienza grava in parte sui bilanci comunali. I servizi relativi a questi minori (in media, più di 5000 ogni anno alla fine del 2000 e più di seimila nel 2014) sono estremamente costosi: l’Anci ha stimato il costo totale per i comuni nel 2013 a circa 200 milioni di euro di cui solo il 10 per cento rimborsato da fondi nazionali specifici. Il secondo gruppo è costituito dai richiedenti asilo», quelli della rete Sprar lodata anche dall’Organizzazione per l’efficienza.
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