C’è una splendida sorgente in un avvallamento sassoso, una piccola oasi verde dove arbusti di tutti i tipi trovano nutrimento nell’acqua e si moltiplicano disordinatamente. L’orto di Antonio è sopra una collinetta dalle parti della sorgente, lui ogni giorno deve fare decine di viaggi con bidoni di plastica per trasportare l’acqua, non c’è un collegamento diretto che permetta di risparmiare fatica, ma tutto ciò a lui non interessa, è abituato a lavorare sodo da sempre. Si alza all’alba per andare ad annaffiare, torna a casa verso le 9 portando il raccolto della giornata e fa colazione, poi riparte per dar da mangiare al maiale e agli altri animali che segue con un amico pastore.
La sua camicia è tutta sporca di pomodoro ed è sudato, non c’è nessuno che lo saluti o gli chieda come va; si limitano a osservare le macchie sulla camicia. E le scarpe!? Ora arriva la figlia, aveva appena lavato i pavimenti e lui li ha ricoperti di terra, non sa lui che le case moderne vogliono igiene e pulizia, i suoi giorni sono ancora regolati dalla natura, il sole è il suo orologio, la terra la sua vita, gli animali il suo nutrimento. Ma i figli non sanno apprezzare tutto ciò, non sanno leggere in fondo al suo sguardo; non capiscono che dietro all’umile atto di portare a casa ogni mattina un mazzo di prezzemolo fresco, c’è un gesto d’amore.
Carla comincia la quotidiana tiritera: Lei è stufa di pulire dove gli altri sporcano, non è la serva di nessuno, vuole la stessa libertà delle altre ragazze, e così via. Lui abbassa lo sguardo, non parla, ma io so che sta soffrendo: la sua figlia adorata, quella che ha atteso con tanta trepidazione, che è nata dopo sei maschi, quella figlia lo odia; quando lui entra, lei esce, a tavola evita perfino di mangiare se c’è lui e poi gli parla sempre indirettamente: “Non capisco perché certa gente non si pulisce mai le scarpe prima di entrare, a cosa servono i tappeti?”.
Prendo coraggio, mi avvicino e gli chiedo come va; lui mi guarda riconoscente, uno di quegli sguardi che valgono mille discorsi, sorride e alza le spalle. È come la sua terra, parco di parole e di gesti affettuosi; la tenerezza non fa per lui che è nato per dimostrare l’amore verso gli altri attraverso il suo duro lavoro. Lo guardo: le sue mani sono screpolate e callose con le pieghe della pelle che trattengono ancora qualche frammento di quella terra tanto amata perché fonte di vita – il suo viso è cotto dal sole e si arrossa a volte quando lui cerca un po’ di effimero calore (quello che i figli non gli sanno dare) in un bicchiere di vino o qualcosa d’altro, forte, magari talmente invecchiato da essere ormai aceto. Qualcosa che lui beve ugualmente perché cerca proprio in quei sapori aspri l’anestetico per non pensare troppo; e gli altri ancora una volta non capiscono niente e parlano solo di pressione alta e rischio d’infarto. Il suo volto mi fa pensare ai nostri alberi curvi a causa del vento: ogni piccola ruga è una battaglia vinta – anche lui, come loro, si piega, soffre, ma non si spezza, è forte, non come noi oggi sempre malati, stanchi, depressi. La scuola della vita lo ha temprato ed ora non ha più paura di nulla.
Intanto cambia discorso e mi parla della guerra, sa che mi interesso alla storia passata e che mi piace stare con lui: questi racconti, che fa solo a me sono più preziosi dell’oro: lui che non mi ha mai permesso di andare all’orto per vederlo lavorare (“ti sporcheresti, e poi la strada è lunga”) mi dona le sue sofferenze passate, la fame, i patimenti… così mi dimostra il suo affetto sincero.
“Te l’ho mai raccontata quella volta a Graaz con Giuseppe… Ci hanno fatti uscire dal capannone e messi tutti in lunghe file, io e Giuseppe eravamo in due file vicine, fianco a fianco, dopo dieci minuti Giuseppe mi ha chiesto di cedergli il posto, aveva il sole negli occhi che gli dava un grande fastidio: ho fatto appena in tempo a mettermi al suo posto che è arrivato il capitano, ha toccato Giuseppe con un bastone dicendo: “Questo gruppo vada a destra” e noi ci hanno fatto rientrare nel capannone. Poi abbiamo visto, dalle finestre, che li stavano fucilando tutti. Potevo essere io… se Giuseppe non mi chiedeva di dargli il posto… ” Si passa una mano sulla testa rasata, scuote il capo e mi saluta: deve pensare al maiale ora!
Il giorno dopo c’è una novità, siccome nel pomeriggio si è buttato sul letto con i vestiti sporchi costringendo la figlia a cambiare le lenzuola, l’hanno cacciato dalla camera per farlo dormire fuori nel ripostiglio, sopra un sacco di patate vuoto. Me ne vado a piangere in un angolo, perché Antonio è così maltrattato da tutti? Oggi Carla ha detto ad una zia (lui stava mangiando una di quelle cene frugali che gli prepara sempre di malavoglia) che quell’uomo non è suo padre, ma solo uno che rompe le scatole; lui non ha fatto una piega, ma quando stasera sono finalmente andata nell’orto ho visto il suo sguardo, reso lucido dal vino, colmo di una tristezza infinita.
E allora ho fatto quello che non avevo mai osato prima: l’ho abbracciato forte e l’ho baciato dicendogli: “Io ti voglio bene, padrino” e lui mi ha fatto un regalo ancora più grande rispondendomi: “Prendi il secchio e porta acqua per i pomodori…”.
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