Toni de Marchi su Mare Nostrum

Mare Nostrum

Tutti abbiamo il nostro Sud. Per la maggior parte di noi Lampedusa è certamente uno dei nostri tanti e diversi Sud. Per i lampedusani il loro di Sud è quel braccio di mare che li separa (unisce?) alle coste nordafricane. Ma, mutatis mutandis, l’ultima propaggine dell’Italia, tanto per usare una retorica demodée, è anche la frontiera di un immaginato Eldorado che per tanti, troppi disperati è il loro Nord, la loro speranza di una vita migliore. O di vita, tout court.

In questa fragile e cangiante frontiera che è di nessuno ed è di tutti, da qualche giorno l’Italia sta dando una prova muscolosa di improvvisa efficienza umanitaria. Mare Nostrum l’hanno chiamata questa operazione che non si è ancora capito se serva più a tenere lontano da noi piuttosto che a salvare la gente in fuga dalla disperazione. Brutto nome, Mare Nostrum, poco accogliente e molto riflesso invece di un’idea surreale di paleo-colonialismo o, se volete, di post-imperialismo straccione. Ma non è naturalmente di questo che vi volevo parlare. Lo fanno già in tanti, e certamente molto meglio di me.

Da oggi infatti si affianca a uno schieramento aeronavale da “spezzeremo le reni” ai delfini, nave San Marco. Unità da sbarco, dotata di un ponte di volo, sale chirurgiche, bacino allagabile. Fu comprata negli anni Ottanta con i soldi della Protezione civile. Uno dei tanti trucchi dei militari per avere armi con soldi non loro. Oltre alla nave si sono presi elicotteri da trasporto pesante Chinook e altre amenità. I Chinook adesso sono in Afghanistan, e per la protezione civile la Marina preferisce usare la portaerei Cavour, 27mila tonnellate di glamour spedite a Haiti dopo il terremoto per portare un po’ di tende. A 180mila euro al giorno, tanto costa una giornata di navigazione, un esercizio alquanto costoso di pelosa solidarietà. Naturalmente di quei soldi spesi per comperare navi ed elicotteri si è persa la memoria, visto che adesso la Difesa ha deciso di farsi rimborsare dai Comuni o chi per loro le spese per gli interventi di soccorso. Ricordate i soldi chiesti per il terremoto in Emilia?

Oltre a nave San Marco c’è uno schieramento di unità di guerra con i loro bei missiletti e i loro cannoncini, ci sono i mitici drones, gli stessi che Obama manda in giro per il mondo a disintegrare i terroristi e chissenefrega dei danni collaterali (leggi innocenti uccisi). Poi ci sono gliAtlantic, poderosi aerei nati per dare la caccia agli Ottobre Rosso de noantri. Costano anche loro un botto, tra poco se ne vanno in pensione, ma un’opportunità non vogliamo dargliela anche all’Aeronautica Militare? La lista potrebbe continuare: P-180. Eh-101, centrali aeronavali. E iradar, i mitici radar che dieci giorni fa non videro il barcone dei trecento morti nonostante fosse a 500 metri dalla costa e benché di radar di sorveglianza, a Lampedusa, ce ne siano addirittura tre: uno della Rete radar costiera della Marina, uno del sistema VTS della Guardia Costiera e uno del cosiddetto dispositivo di sorveglianza di profondità Guardia di Finanza. Tre.

 Ovvio che sia grande il sospetto che tutto questo bendiddio muscoloso non serva a salvare i disperati ma, da una parte, a rimandarli indietro, e dall’altra a fare passerella per giustificare i sette miliardi che la Marina Militare ha appena avuto dal Governo. Un sospetto che diventa certezza quando uno scopre che per mettere in piedi questo ambaradan è stata bellamente messa da parte e quasi dimenticata l’unica organizzazione che in Italia, per legge, per i trattati internazionali e per compito istituzionale deve fare e fa tutti i giorn

i il soccorso in mare: la Guardia Costiera. Undicimila donne e uomini addestrati, equipaggiati e permanentemente all’erta, scomparsi all’improvviso. La Guardia Costiera ha aerei moderni come gli ATR (uno è di base a Catania, a un tiro di schioppo), elicotteri, navi, ha una sala operativa nazionale che coordina quotidianamente il lavoro delle sue unità. Ha imbarcazioni veloci progettate per il salvamento in mare. Imbarcazioni che hanno anche seicento miglia di autonomia, possono cioè fare Libia-Lampedusa andata e ritorno due volte senza rifornirsi. Che possono fare interventi con precisione chirurgica. A usare le navi da guerra si rischia di ripetere la tragedia della Sibilla, la corvetta che provocò l’affondamento di una nave albanese in Adriatico facendo un centinaio di morti.

Insomma perché non chiamare chi fa questo di mestiere, e lo fa bene? Ma nel Mare Nostrum (o forse sarebbe meglio Vostrum) la Guardia Costiera viene nominata di sghembo. Alla fine dei comunicati, giusto per gradire. Che volete, sarebbe troppo banale dire che sarebbe sufficiente dargli un po’ di soldi in più per pagare le centinaia di ore di strao
rdinario
già fatte dai suoi uomini e donne e che non saranno mai retribuite. O dargli qualche stanziamento aggiuntivo per la manutenzione e il carburante.

Ovvio che quelli delle capitanerie di porto, il corpo di cui fa parte la Guardia Costiera, siano incazzati di brutto. Tanto che il COIR (il loro sindacato, chiamiamolo così per semplicità), ha scritto un comunicato durissimo nella sostanza ma vellutato nelle forme (sempre militari, sono) per chiedere al Comandante di “voler prevedere, a mera tutela del personale rappresentato, una chiara regolamentazione delle regole di lavoro e cooperazione per poter fronteggiare al meglio le inevitabili ‘interferenze’ che si verranno a creare in un tratto di mare interessato alla presenza di dispositivi S.A.R. di altri Paesi, unità M.M., ‘soccorritori’ ma soprattutto migranti”. Insomma, al netto della forbitezza, quelli che faranno la gran parte del lavoro “sporco”, cioè i marinai della Guardia Costiera, temono giustamente l’esibizionismo mediatico, e non, dei sedicenti rinforzi. Che in questo caso non sono né attesi né richiesti, a differenza del Settimo Cavalleria dei westernd’antan.

Insomma, meno conferenze stampa, meno ammiragli e più riconoscimento a chi fa il lavoro vero di tutti i giorni. Come dice Antonello Ciavarelli, maresciallo delle Capitanerie di Porto e delegato COCER, riferendosi anche alle polemiche sui soccorsi al barcone dei trecento morti, “non è un eroe chi vive “alla grande” la vita, ma chi vive la quotidianità in “maniera grande”, il senso di umanità che i colleghi sanno esprimere dovrebbe diventare lo stereotipo e l’orgoglio di noi italiani e per il mondo intero”. Al netto della retorica, difficile dargli torto. O dobbiamo ricordarcene solo per quel “vada a bordo, cazzo”, l’icona del dovere come normalità di fronte all’opportunismo delle circostanze?

(Articolo del Fatto Quotidiano del 18.10.2013)

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.